domenica 9 novembre 2014

RENDI A NOI IL NOSTRO DEBITO






RENDI A NOI IL NOSTRO DEBITO - L’ITALIA E’ ANCORA IN RECESSIONE, IL DEBITO PUBBLICO CONTINUA A SALIRE (133,8% SUL PIL NEL 2015) E OGNI ANNO COSTA ALL’ITALIA INTERESSI PER 80 MLD DI EURO - IRLANDA E GRECIA, FATTE LE RIFORME, ORA HANNO IL PIL IN RIALZO

La Commissione Juncker ritiene che l’Italia potrà correre nuovi rischi se ritarderà ancora la ripresa della domanda esterna; ma dice anche che “le sue prospettive di crescita potrebbero trarre beneficio da un effettivo compimento del processo delle riforme”…

1 - ALLARME DELL’EUROPA: IL DEBITO È TROPPO ALTO
Luigi Offeddu per “il Corriere della Sera

renzi all assemblea degli industriali a bresciaRENZI ALL ASSEMBLEA DEGLI INDUSTRIALI A BRESCIA
La ripresa economica non sta avvenendo con la rapidità e con la forza che ci attendevamo a primavera». Dunque ancora «crescita debole» ovunque, nel 2014 (+1,3 nell’Ue, +0,8% nella zona euro) con lenta ripresa solo a partire dal 2015, quando gran parte dell’Unione Europea tornerà a crescere più dell’1%. «Crescita deludente» anche per la Germania: la Commissione stima un calo dall’1,3% di quest’anno all’1,1% nel prossimo.

Nelle previsioni economiche d’autunno due commissari Ue, Jyrki Katainen e Pierre Moscovici, fra i più importanti perché si occupano di crescita e di affari economici, certificano l’annaspare dell’eurozona: «I suoi risultati sono i peggiori dell’Ue, come di altre regioni extra-Ue».

jean claude junckerJEAN CLAUDE JUNCKER
E al centro dell’eurozona, sta l’Italia: crescita del Pil ancora negativa, a quota -0,4% nel 2014, con leggera risalita al +0,6% nel 2015 e al +l,1% nel 2016; debito pubblico che continua a salire in rapporto al Prodotto interno lordo (132,2% nel 2014, «picco» mai prima raggiunto del 133,8% nel 2015, tuttora il debito più grande in Europa dopo quello della Grecia); tasso di disoccupazione a livelli «storicamente alti» (inchiodati sul 12,6% sia nel 2014 che nel 2015, annunciati in discesa al 12,4% solo nel 2016); una disoccupazione che viene dipinta drammaticamente da Bruxelles «con possibili effetti di isteresi»: cioè di accumulo «ereditario», dalle crisi precedenti, quasi fuori controllo.

matteo renzi pier carlo padoanMATTEO RENZI PIER CARLO PADOAN
E infine deficit pubblico che giunge a toccare il fatidico 3% del Pil nel 2014, per poi planare verso il 2,7% nel 2015, e verso il 2,2 nel 2016. L’inflazione resta bassa, troppo bassa. C’è anche una constatazione di nicchia, che però la dice lunga sull’andamento della barca italiana: nel 2013 vi è stata una «crescita marginale» di alcune entrate, dovuta solo «all’Iva e alle tasse sulla proprietà che compensano un calo nelle tasse sull’impresa».

In definitiva la Commissione ritiene che l’Italia potrà correre nuovi rischi se ritarderà ancora la ripresa della domanda esterna; ma dice anche che «le sue prospettive di crescita potrebbero trarre beneficio da un effettivo compimento del processo delle riforme».

La campionessa della crescita nel 2015, forte di un Pil che sale del 3,6%, dovrebbe essere l’Irlanda che 4 anni fa era in bancarotta. Un altro cavallo ben piazzato, con Pil a quota +2,9% dovrebbe essere la Grecia, un tempo fanalino di coda. La Francia riottosa deve rassegnarsi a «una crescita molto lenta» (+0,7% nel 2015). C’è infine una sorpresa: nel 2014 la Finlandia, già alfiere della crescita europea, vede il suo Pil calare dello 0,4%, né più né meno come l’Italia.

2. IL CIRCOLO (VIZIOSO) DEGLI INTERESSI: UN MACIGNO DA 80 MLD DI EURO
Sergio Bocconi per “il Corriere della Sera

DEBITO PUBBLICODEBITO PUBBLICO
Peccato originale, Moloch, Dna. In qualsiasi modo lo si voglia definire il debito pubblico italiano nasce e cresce con il Paese: quando il ministro delle Finanze Pietro Bastogi parla alla Camera il 29 aprile 1861 dice parole che oggi potrebbero essere definite di «stringente attualità»: «Perché l’Italia meriti il credito di tutta l’Europa deve cominciare a rispettare i debiti contratti...». Inizia così la lunga marcia del debito pubblico italiano che Quintino Sella riporta in sostanziale pareggio nel 1876.

Cent’anni dopo siamo ancora «virtuosi»: nel 1975 il debito ha già fatto un primo balzo ma è ancora pari al 56% del Pil. A pagare in parte le «spese» è chi incassa interessi reali negativi di sette punti. Ed è il caso di sottolineare il costo del debito perché in futuro, cioè in questi ultimi dieci anni, sarà invece questo un autentico macigno per l’Italia, soprattutto in presenza di una crescita del Pil nominale pari a zero e negativa in termini reali.

Circa 80 miliardi di media l’anno che contribuiscono a depotenziare qualsiasi politica economica. Sono interessanti a questo proposito le analisi condotte da esperti come Roberto Artoni (che ha scritto «Il debito pubblico in Italia dall’unità ad oggi») professore ordinario di Scienza delle finanze alla Bocconi. Perché è nell’equilibrio fragile fra le varie componenti macroeconomiche che si viene formando il disequilibrio che farà esplodere il debito pubblico italiano.

JIRKY KATAINENJIRKY KATAINEN
Nel 1970 la situazione della finanza pubblica è «normale»: la spesa è pari al 33% del Pil e il debito al 37,1%. Seguono dieci anni di governi Rumor, Colombo, Andreotti, Moro, Cossiga, Forlani, nei quali «turbolenze» sociali, rallentamento dell’economia, costituzione di un welfare in parte «elettorale» e alta inflazione conducono un primo ribaltamento della situazione. Nel 1980 la spesa è così aumentata di otto punti al 40,8% del Pil mentre le entrate, cioè il gettito fiscale, cresce della metà. Il debito è 56,1%, il peso degli interessi passa dall’1,3 al 4,4% ma con i prezzi che aumentano al 21,1% l’anno i tassi reali sono negativi del 5,8%.

Iniziano gli anni del craxismo e la spesa si impenna ulteriormente portandosi nel 1985 al 50% del Pil. Sono però anche anni caratterizzati da un’inversione di tendenza nelle politiche monetarie internazionali che si inaspriscono a partire dall’America reaganiana. Nell’85 in Italia, (nonostante il buon andamento dell’economia) il debito sul Pil «vola» all’80,5% ed è importante osservare che se il totale della spesa pubblica cresce di cinque punti, gli interessi raddoppiano all’8,4% del Pil con tassi reali che adesso favoriscono i sottoscrittori dei titoli di Stato perché sono positivi e pari al 4,5%. Il macigno pesa.
Pierre Moscovici and Marie Charline Pacquot article A CAFA DC xPIERRE MOSCOVICI AND MARIE CHARLINE PACQUOT ARTICLE A CAFA DC X

Il trend prosegue negli anni successivi e il debito che nel ‘90 è al 94% nel 1992 supera la soglia del 100%: siamo al 105%. Cambiano i governi, da Andreotti ad Amato e Ciampi, scatta l’adesione al trattato di Maastricht (che entra in vigore nel novembre del ‘93) e cadono anche i tassi e il loro peso relativo su spesa e Pil. Nel ‘92-93 cominciano anche le privatizzazioni che vedono Romano Prodi prima alla guida dell’Iri e poi nel ‘96 all’esecutivo.

Le cessioni di banche e aziende di Stato con lo smatellamento delle partecipazioni statali «fruttano» complessivamente 127-130 miliardi. Grazie dunque al combinato disposto di aumento delle entrate, riduzione delle spese, ritorno all’avanzo primario e un forte calo del peso degli interessi (che passano dal 10,1% nel ‘95 al 3,2% nel Duemila) il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo scende dal 121% del ‘94 al 108 del 2001. Per toccare il «minimo» nel 2007 al 103,3% quando al governo c’è di nuovo Prodi.

Ebbene: come e perché in meno di dieci anni si torna al 134%? L’avanzo primario è pari in media al 2%, la spesa, al netto delle cessioni pubbliche, resta intorno al 50% del Pil e anche le entrate non registrano rilevanti variazioni. Ma mentre il Pil cresce zero in termini nominali e ha segno meno in termini reali, gli interessi rappresentano in media sempre il 5% circa del Pil. Il debito, nonostante i tassi bassi e lo spread relativamente contenuto, costa. Tanto.




Fonte : dagospia

Napolitano: sempre più concreta l’ipotesi dimissioni. Il premier: è una garanzia. Si apre il toto-presidente



napolitano-stato-mafia



Roma – Si fa sempre più concreta l’ipotesi delle possibili dimissioni di Giorgio Napolitano e, di fatto, si è già aperto il toto-presidente per dare avvio alla sua successione.
Questa dunque la partita, che occuperà lo scenario politico italiano dei prossimi mesi e darà vita ad un acceso dibattito, che passerà necessariamente per quello sulla stabilità del Patto del Nazareno, perché chiaramente Forza Italia vuole partecipare attivamente alla scelta del nuovo presidente.
Matteo Renzi è stato tra i primi ad intervenire nell’esprimere il suo pensiero e, durante la sua visita al cantiere di Valico sull’Appennino tosco-emiliano, rispondendo sull’eventualità che Napolitano lasci,  ha commentato così: «Io non mi preoccupo del futuro del Capo dello Stato, mi preoccupo di fare bene il mio lavoro. Napolitano è una garanzia per tutto il Paese»,
Nella risposta del premier traspare da un lato la solidità del suo rapporto con il Colle, ma anche la consapevolezza che Napolitano potrà lasciare.
Il presidente del Senato Grasso guarda ad un futuro in cui Napolitano non sarà più al Quirinale e dice: «Sono certo che il presidente della Repubblica darà e continuerà a dare il massimo per essere utile al nostro Paese in qualsiasi modo e con qualsiasi funzione».
Parole di stima nei confronti Napolitano arrivano anche dal ministro Maria Elena Boschi, che auspica che il presidente «possa rimanere il più a lungo possibile a svolgere il suo ruolo per tutti noi come Capo dello Stato».
Giovanni Toti, di Forza Italia, invece chiede che Napolitano resti lì dove sta, perchè da stabilità al Paese. Fi si sente, dunque garantito dalla presenza di Napolitano. Ma se dovesse decidere per l’addio del presidente, il suo successore dovrebbe essere sicuramente un nome di garanzia. Fi si rivolge al Pd e fa anche capire chiaramente a Renzi: «Nessuno pensi a forzature di maggioranza».
Forza Italia, dopo la sgradita sorpresa del voto per il giudice della Consulta, che ha visto il successo del Pd e M5s, non gradirebbe che questo orientamento si ripeta anche per il Quirinale.
Dello stesso parere anche Ncd di Alfano, che chiede a Napolitano di restare e chiede che per la successione si trovi una convergenza su figure di “alto profilo”, che non determinino scontri di ideologie e soprattutto che siano «un elemento di garanzia».
Pier Luigi Bersani, invece, si affida alla decisione del Capo dello Stato e si limita a commentare con un secco «farà per il meglio».
Per il momento non ci sono commenti significativi del M5s che, pur mantenendo la sua linea critica nel confronti del Colle, non si sbilancia ancora. Grillo però, sul suo blog, definisce Napolitano «un presidente della Repubblica eletto(si), contro lo spirito della Costituzione, che decide lui quando dimettersi ricattando di fatto il Parlamento».
Dopo la pausa della domenica, si attendono nei prossimi giorni sviluppi e dichiarazioni che facciano meglio capire l’indirizzo politico che si vuole dare a questa delicata vicenda che, volente o nolente, bisognerà affrontare prima o poi, non fosse altro che per questioni anagrafiche dell’anziano presidente, su cui gravano il peso degli anni e delle difficoltà politiche del momento che richiedono e assorbono tanta energia, che anche per un tipo in ossidabile come lui è destinata ad esaurirsi.
Ovviamente già, più o meno apertamente, si sono aperti ragionamenti sulla succesione e circolano i nomi che danno il perchè a questi ragionamenti sicuri, che nella dialettica politica parlarne non è irrispettoso nei confronti di Napolitano, che fin da subito dopo la sua rielezione ha sempre fatto capire che il suo era un “impegno a tempo”.
Tra i possibili nomi, Romano Prodi, che potrebbe risarcirlo dopo lo sgambetto dell’anno scorso, in cui fu tradito dai 101 del suo partito. che ne bloccarono la corsa verso il Colle.
Ci sarebbe anche l’insospettabile Graziano Delrio, attuale sottosegretario alla Presidenza del consiglio e uomo di fiducia di Renzi, che potrebbe arrivare spedito verso il colle appoggiato dai parlamentari del Pd.
E poi ancora il ministro della Difesa Roberta Pinotti, che potrebbe costituire la sorpresa che accontenterebbe chi vuole un nome al femminile per la più alta carica dello Stato. Ma su questa scia torna puntuale il nome di Emma Bonino e pure Anna Finocchiaro.
Infine non manca tra i papabili il nome di Piero Fassino, attuale presidente dell’Anci, ex ministro degli Esteri, oltre che ex segretario dei Ds. Ma tutto è ancora possibile e nessuno di questi nomi ha certezze, perchè le correnti ed i venti politici potrebbero ribaltare ogni previsione e perciò è ancora troppo presto.



Fonte: Sebastiano Di Mauro per 2duerighe


venerdì 17 ottobre 2014

CROLLANO LE BORSE…L’EUROPA BRUCIA!






Ieri per l’ennesima volta all’improvviso è stato affascinante, bruciavano soldi ovunque, le borse erano in fiamme, miliardi di euro e dollari andavano in fumo.
Ragazzi, suvvia non brucia nulla in borsa, nella finanza al limite…
TUTTO SI CREA, NULLA SI DISTRUGGE, TUTTO SI TRASFERISCE DA UNA TASCA ALL’ALTRA!
Padoan probabilmente all’oscuro della svalutazione programmata della Borsa Italia che l’ha portata ad essere la terza borsa più SOTTOVALUTATA al mondo, al termine della conferenza stampa si è espresso così…
“La verità è che i mercati stanno scontando un eccesso di euforia, si era andati aldilà di quanto l’andamento dei fondamentali giustificasse”.
Ma certo i titoli di stato invece no vero, non stanno andando al di la dei fondamentali, no quelli riflettono lo splendido lavoro del governo italiano, no quello della banca centrale.
Ma ovviamente la colpa è del petrolio, dell’ebola, del toni, del bepi e della Grecia, si il più grande successo dell’euro…
Ma lasciamo da parte questi particolari è occupiamoci di quello che è accaduto ieri ai tassi in America senza dimenticare che le previsioni generali sui titoli a 30 anni erano per un livello tra il 4 e il 4,5 % alla fine di quest’anno…
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Credo fosse il 3 ottobre dello scorso anno quando mentre le grandi banche d’affari e il mondo intero suggeriva di fuggire dalla terra promessa, dai tesori d’America all’improvviso …


MACHIAVELLI E L’UOVO DI COLOMBO!





















Ebola in Town

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Quando ho aperto El Pais la mattina del 7 ottobre scorso, quell’inconscia sensazione di spavento protettivo che ti avvolge quando fronteggi qualcosa che non conosci mi ha subito pervaso. Poi ci ho riflettuto un attimo e mi sono tranquillizzato, pensando che ogni allarmismo è in realtà ingiustificato e che iniziare a correre come formiche a cui è stata interrotta la via che conduce al formicaio è totalmente inutile.
Teresa Romero è stata la prima persona contagiata dall’Ebola in Europa. Le istituzioni hanno subito parlato di colpe e impreparazione per cercare di coprire gli errori fatti. Anche se si potrebbe riassumere il tutto parlando di eccessiva superficialità nell’approcciare una minaccia che ad oggi non sappiamo bene come sconfiggere. Tuttavia, spiegazioni e giustificazioni non risolvono i problemi e l’avere sostituito gli aggiornamenti sul numero di contagi e morti in Africa, che per quanto grosso ci tocca da lontano, con un nome, e quindi il volto e la vita, di una persona contagiata ha avuto una ben più efficace capacità di fare paura.
Dunque, la pandemia che al momento si è diffusa in Europa – e anche negli States, dove si è registrata la prima vittima e dove il sistema sanitario privato è sicuramente un aspetto che contribuisce a destare preoccupazioni – è psicologica. È timore dell’ignoto. E, dai primi casi sospetti nel dicembre 2013, alla ufficializzazione dell’outbreak da parte del Centre for Disease Control and Prevention del 25 marzo scorso ad oggi, è stata proprio l’incapacità di evitare il diffondersi della paura il più grande errore; nonché fattore amplificante di questa “emorragia” di Ebola.
Complici (alcuni) media, sicuramente, che con il cinismo di chi forse si è scordato che avrebbe il compito di fare informazione prima di fare audience, hanno diffuso notizie sommarie, contraddittorie e imprecise. Anche i governi europei, dal canto loro, non hanno saputo prendere decisioni rapide e hanno probabilmente sottovalutato la situazione, non essendo pronti a casa loro e agendo con ritardo là dove focolai di Ebola stanno bruciando quotidianamente le vite di sempre più persone (persone, non numeri).
Proprio come feci la mattina del 7 ottobre, è necessario fare un respiro profondo e analizzare con calma i fatti.
La rapida diffusione del virus Ebola in Africa occidentale è stata determinata da una concomitanza di cause. La prima è la debolezza e la povertà delle istituzioni locali, che ha determinato lentezza nell’intraprendere azioni di contrasto e ha permesso al virus di soggiornare e spostarsi tra le terre africane più del necessario, ponendo le basi per la successiva impennata di contagi e morti.
La seconda è la pessima qualità delle infrastrutture e dei sistemi sanitari locali che non hanno permesso di contenere l’emergenza, determinando così l’elevato numero di contagi e decessi ad oggi registrato; si tenga, tuttavia, a mente che le morti giornaliere causate dall’Ebola sono 13 contro, ad esempio, le 685 causate dalla HIV/AIDS.
Vi è infine un terzo fattore, collaterale ma comunque rilevante, ovvero la sfiducia delle popolazioni locali nei confronti dei loro governi e la conseguente sottostima del problema anche da parte della popolazione. Rimasi particolarmente colpito da un documentario di qualche tempo fa, in cui i liberiani intervistati per le strade di Monrovia dicevano che l’Ebola è solo un trucco inventato dal governo per ottenere aiuti internazionali; eloquente anche il fatto che in Liberia la hit musicale al tempo del video si intitolava “Ebola in Town”.
Alla luce di questi tre fattori sembra difficile che lo stesso scenario si possa verificare in Europa o negli States. Basti ad esempio pensare che, come riporta il The Economist, la Guinea ha un dottore ogni 100mila persone contro i 370 della Spagna. La situazione potrebbe però assumere una piega differente se, come alcuni hanno teorizzato, il virus mutasse forma e perdesse il suo “tallone di Achille” passando dal contagio attraverso scambio di fluidi corporei a quello aereo. Sebbene sia giusto non sottovalutarla, questa rimane solo una ipotesi e prenderla troppo sul serio sarebbe un’ulteriore fonte di allarmismo ingiustificato.
Ciò che invece è certo è che il danno per i territori colpiti sarà ingente: l’attuale stima della World Bank è che l’impatto economico sarà di 32.6 miliardi di dollari entro la fine del 2015. Un grosso numero di malati vuole dire un grosso numero di persone che non svolge la propria professione e un paese che non va avanti. Questo effetto è magnificato laddove il paese in questione è sottosviluppato.
La crisi sanitaria dell’Ebola fa riflettere su come delle istituzioni salde, in grado di porre in essere politiche coese, avrebbero probabilmente permesso di ridurre il numero di decessi e i costi sociali. E se questo non è stato il caso dei governi di Guinea, Liberia, Nigeria e Sierra Leone, non è stato nemmeno il caso dell’Europa che, come spesso succede, si è mostrata frammentata e eccessivamente burocratizzata. Nel 1720, quando la Grand-Sant-Antoinearrivò nel porto di Marsiglia riportando per l’ultima volta la peste in Europa, il potente governo francese fece costruire il Mur de la Peste per contenere l’epidemia in attesa di una soluzione. Quasi 300 anni dopo dovremmo avere i mezzi per evitare una soluzione così estrema, ma è necessario uscire dall’attuale impasse.


Fonte: Iacopo Tonini per il Quorum