lunedì 3 febbraio 2014

La terra è finita. Ora che facciamo?


di Luca Bertagnon - L'Insorgente

La terra è finita. Ora che facciamo?
Riprendiamo l'interessante analisi di Luca Bertagnon, già pubblicata su L'insorgente
Il paesaggio, così come lo riconosciamo e lo apprezziamo, si è progressivamente costruito fin dal medioevo per il convergere d due fondamentali fattori: la necessità delle comunità di aggregarsi per proteggersi dagli attacchi esterni e dalle razzie; e la contemporanea diffusione a larga scala dell’agricoltura, con ampi disboscamenti e con la bonifica di zone paludose e depresse. L’antropizzazione si esprimeva non come la intendiamo oggi, attraverso l’occupazione del suolo con manufatti edilizi o con ingombranti infrastrutture, ma attraverso l’agricoltura, ovvero sostituendo la vegetazione autoctona e spontanea con le coltivazioni indispensabili a sfamare le comunità umane in crescita. Si creava così un virtuoso ‘dialogo’ tra una natura ‘pettinata’ ed ordinata dall’uomo ed agglomerati edilizi compatti che dominavano sul paesaggio che essi stessi contribuivano quotidianamente a costruire e mantenere.

 È profondamente vero che il paesaggio è una costruzione tipicamente umana ed è figlio dell’antropizzazione, ma quale antropizzazione? Non certo l’attuale modello di sviluppo consumistico, che, nella sua visione così profondamente e radicalmente consumistica considera anche il suolo come un bene di consumo qualsiasi. L’inesorabile distruzione del paesaggio, così come l’abbiamo ereditato da secoli e secoli di oculata gestione del territorio, è determinata proprio dall’illusione di poter utilizzare il suolo indiscriminatamente come un ‘supporto’ qualsiasi, perdendo inesorabilmente lo storico rapporto tra coltivi ed edificato.

 La stessa rinuncia all’edificazione compatta, determinata dalle migliorate condizioni socio-politiche nelle campagne, ha determinato la progressiva occupazione degli spazi storicamente destinati all’agricoltura, concedendo più spazio all’abitare, offrendo spazi autonomi, privati ed esclusivi ai nuclei familiari che non avevano più la necessità di compattarsi per difendersi. 

Da qui la fase distruttiva del paesaggio storico, che ha avuto una incontrollabile accelerazione con il boom economico dal secondo dopoguerra in poi, sulla spinta di un capitalismo consumistico che ha fatto da volano all’impropria colonizzazione di ogni appezzamento di terreno disponibile. Nell’ultimo secolo in particolare ci si è crogiolati nell’illusione che “la terra” non fosse più indispensabile per sfamare i propri figli, ma potesse essere utilizzata in modo più produttivo per generare capitali e ricchezza. Non si è avuta più alcuna remora quindi a sacrificare terreni fertili non solo per destinarli all’infrastrutturazione alla produzione industriale ed alla costruzione di abitazioni, ma spesso si è costruito al solo scopo di costruire, di edificare beni, di disporre di capitali tangibili, trasposti in termini volumetrici, dotati di un valore indipendentemente dalla loro effettiva necessità o dal loro reale utilizzo. 

Soprattutto si è andati avanti a costruire, occupando terreni liberi, erroneamente considerati in disponibilità illimitata, senza mai pensare a come razionalizzare, sostituire, rigenerare, ottimizzare il patrimonio edilizio esistente. Nella aberrante logica del consumo indiscriminato si è preferito abbandonare il vecchio e costruire il nuovo piuttosto che riutilizzare, rinnovare, rimodernare o rifunzionalizzare l’esistente, con la conseguenza di sommare alla brutta edilizia contemporanea, i resti e di fatto gli scarti abbandonati del passato.

Non mi soffermerei sull’ipocrisia di pseudo norme vincolistiche e conservative del territorio e del paesaggio, del tutto ininfluenti e fallimentari, incapaci di arginare voracità insaziabile di terreni da sacrificare alla speculazione e allo sviluppo. Le leggi del resto altro non sono che lo specchio dell’economia, della cultura e del pensiero dominante in un determinato momento storico e certo non è pensabile che vadano contro corrente. Guardiamo quindi alle nuove prospettive economiche e di sviluppo dopo la crisi degli ultimi anni, che ha avuto il merito di risvegliarci dall’ubriacatura di un illusorio progresso infinito basato sulla spesa e sui consumi. Obbligati a tornare con i piedi per terra stiamo tornando a comprendere la funzione privilegiata della terra: quella di sfamarci. 

Il fatto stesso di essere obbligati a tornare con i piedi per terra porta a confrontarsi con il concetto di benessere, di appagamento e di felicità, comprendendo come vi siano forme di appagamento virtuale ed illusorio e forme di appagamento sostanziale e di autentico benessere, non sempre e non necessariamente dipendente dalla disponibilità di cose, oggetti o peggio status simbol. 

Si sta sempre più riscoprendo la vera essenza del benessere che passa da un rinnovato rapporto con la terra, con l’ambiente circostante, con l’attività sportiva, con il proprio corpo e con i tempi da dedicare al lavoro ed allo svago. In questa accezione allargata di benessere e di ricchezza tornano ad acquisire valore il territorio, l’ambiente, il paesaggio, l’agricoltura ed i prodotti genuini della terra. Ritrova un proprio spazio anche la cultura, la memoria, l’appartenenza, come reazione ad una pretesa omologazione che comincia a stare stretta a molti. 

Ed in tale prospettiva si delinea anche un prossimo traguardo di sviluppo per il nostro territorio che può finalmente investire convintamente sulle proprie peculiarità, sull’attrattività che è ancora in grado di esprimere, su quel senso di benessere che è in grado di generare nel rapporto tra acqua, natura e montagna. In questa prospettiva, che è prospettiva economica e di sviluppo e non certo lirica o nostalgica, e che personalmente definisco con il termine di EDENAMISTA, torna ad assumere un ruolo preponderante il territorio ed il paesaggio; torna ad assumere importanza il rapporto tra bosco e coltivi; diventa impellente il riordino, la rigenerazione di quanto a suo tempo edificato; si affaccia prepotentemente anche l’opzione demolitoria, della eliminazione di quanto impropriamente costruito nel passato, di ciò che non è più in uso e di ciò che deturpa e che siamo sempre meno disposti a tollerare.

Tratto da : liberiamoci

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